Estudios sobre Sufismo

martes, 5 de julio de 2011

TRA QUALITA E QUANTITA: La Poesia nel Tasawwuf

Tra Qualità e Quantità: la Poesia nel Tasawwuf

Una delle caratteristiche veramente distintive dell’essere umano è il linguaggio. Oltre a ciò è importante notare che i popoli antichi[1]avevano, rispetto ai moderni, la capacità di parlare in versi come ci dicono le testimonianze di glottologia classica di gran parte delle lingue antiche, qualunque sia la loro origine. Oggi, l’alfabetizzazione data sempre più in anticipo e la contemporanea diffusione di mezzi di comunicazione “avanzata” rendono l’uomo più vicino agli altri animali, che non fanno uso delle parole, dopo aver fatto di lui un volgare prosatore[2] quasi privo di memoria, grazie all’avvento antitradizionale della stampa. Ancora nel secolo scorso era comune tra i contadini analfabeti di tutta Europa la capacità di improvvisare versi nel loro gergo locale con la stessa facilità con cui i giovani di oggi sanno “navigare in rete”. E certamente la poesia è stata sempre il modo di dare il massimo potere alla parola, specialmente se questo potere era tenuto a rendere la parola simbolo[3] della verità più alta.

Dove e quando non vi è stata pratica religiosa senza poesia o senza la sua naturale estensione, il canto? Le tradizioni religiose[4] sono sempre state trasmesse in versi anche quando poi sono state formalmente trascritte, essendo la tradizione orale sempre antecedente a quella scritta. Non ci stupiamo, quindi, se, per esempio, i Sacri Veda[5] sono in versi al pari di tutti i testi[6] che derivano la loro autorità e dignità da questi[7].

Analogamente anche il Libro Sacro dell’Islam, il Nobile Corano (al-Qur’an al-Karim), è in versi e rappresenta un capolavoro[8] di poesia[9], come riconosciuto anche dai suoi detrattori più grandi in qualsiasi momento. Perciò è più che naturale che i veicoli per eccellenza della trasmissione di tale tradizione siano stati la poesia e il canto[10]. Non vi è stato alcun aspetto della conoscenza islamica che non è stato in qualche modo trasmesso attraverso poesie: dalle credenze di base alla grammatica, dalle norme giuridiche alle esperienze iniziatiche, e nessuna lingua di nessuna popolazione che abbia abbracciato l’Islam è stata trascurata[11]. Questo processo è ancora in corso al momento attuale malgrado la diffusione internazionale dell’inglese come lingua di koinè tra i giovani musulmani.
Tuttavia l’uso della poesia è diventato centrale, se non essenziale, per la trasmissione della conoscenza iniziatica, in particolare appunto negli aspetti della Din[12] relativi alla realtà metafisica e ai modi della realizzazione spirituale. In altre parole ci riferiamo al complesso delle scienze islamiche chiamato taSawwuf o più comunemente sufismo, pertanto, non riguardante l’aspetto generale della religione (Shari’a), ma le metodologie (Tariqa) per raggiungere la Realtà Ultima del Divino (Haqiqa) e l’esperienza legata alla Sua conoscenza intellettuale (Ma’arifa).

Ciò si verifica perché lo strumento poetico consente in una sola volta di agire sui tre livelli sopra menzionati. I versi poetici, che comprendono anche Nomi Divini e versetti del Santo Corano, diventando di per sé forme di invocazione o incantesimi[13] che sono il cuore delle metodologie spirituali (le poesie sono forme di wird e dhikr[14]), conducono così attraverso allusioni e metafore a realtà che possono essere solo “toccate”, ma non pienamente comprese e possono indurre la percezione e il “gusto” di queste stesse realtà e delle loro dimensioni. L’arte poetica si basa sul ritmo in accordo con il suono di una determinata lingua, scoprendo in qualche modo la sua “anima” o per meglio dire utilizzando l’aspetto della lingua che può parlare più direttamente all’”anima” aggirando i flussi discorsivi della mente razionale, che solitamente inganna la comprensione della realtà interiore. Questi tre aspetti del “parlare in versi”[15], che possono essere ricollegati ai tre movimenti essenziali delle esperienze spirituali, orizzontale, ascendente e discendente, modulati e combinati in un numero indefinito di modi, rendono le poesie lo strumento più diretto e completo per l’insegnamento spirituale. Inoltre la presenza del ritmo lega naturalmente poesia, canto e danza[16].

Va notato quì che è la stessa cosa a creare la poesia dalle lingue, che trae il canto dal respiro e che induce nei corpi la danza, cioè il ritmo. Ma quest’ultimo non è nient’altro che l’alternanza di presenza e assenza in un numero definito di volte, in altre parole la quantità pura (che si manifesta e non si manifesta) organizzata in conseguenza alla qualità pura (il numero), una sorta di “confine” o barzakh[17] tra il mondo materiale (quantità) e quello spirituale (qualità). Infatti l’effetto spirituale delle poesie è legato principalmente al loro tono ritmico, ciò che è chiamato maqam, che regola anche il loro uso durante l’audizione rituale o sama’. Naturalmente anche il significato delle poesie sarà collegato agli usi rituali. Qasa’id o ilahie, che contengono consigli e insegnamenti dettagliati, sono in genere cantate nelle fasi iniziali più sobrie, altre che descrivono Allah (JWS) e i Suoi Nomi nonchè dettagli del percorso spirituale, in seguito. Invece i momenti più intensi sono sottolineati da recitazioni in lode al Profeta (SAAS), come il Burda[18].

In alcuni paesi e in alcune turuq[19] le audizioni si basano principalmente sulla recitazione delle poesie, con minimo o nessun accompagnamento strumentale, come accade in gran parte del Nord Africa. Quì le poesie precedono il dhikr vero e proprio, portando, per così dire, all’invocazione corale in una fase successiva . In altre i ruoli sono invertiti con il dhikr che precede le poesie. In entrambi i casi comunque la qasida svolge un ruolo congiunto di invocazione e di istruzione per gli ascoltatori.

In alcuni casi, l’impiego delle poesie all’interno del dhikr comune è evitato, e la loro recitazione avviene separatamente, e spesso un dars o un sohabet descrivono e chiariscono il significato delle poesie. In questi casi la massima rilevanza è generalmente data agli aspetti dottrinali inseriti nelle poesie, e le loro osservazioni possono essere spunto per una discussione ispirata tra i presenti. Uno scenario completamente diverso si verifica nella tradizione Qawalli del subcontinente indiano, dove le poesie sono accompagnate da complessi[20] strumenti e la cui recitazione è il rito stesso (dhikr). Il solo ascolto indurrà così il progresso spirituale e la purificazione del cuore.

Infine non è rara l’inclusione di poesie nel wird presso alcune turuq, come, per esempio, quella intitolata Latafya, attribuita a Shaykh Ibn Arabi (QS), in certi rami della Shaziliyya, sia per le invocazioni che contengono e sia per le istruzioni dottrinali, considerate di grande rilevanza per il progresso spirituale dei membri.


[1] L’antichità a cui ci si riferisce è quella storica, appartenente all’ultima parte del Kali Yuga.

[2] Intendendo con ciò un essere privo della capacità di fare poesia nel senso poi specificato.

[3] I moderni ritengono sempre che i simboli sacri debbano necessariamente dotarsi di supporti visibili per essere tali. Ciò è in realtà errato poichè tra le qualità sensibili il suono risulta quella più vicina al Principio. Perciò nelle civiltà tradizionali non si ritiene ignorante colui che non sa leggere, come nell’Occidente moderno, bensì la persona che non sa ascoltare (sia a livello esteriore che interiore).

[4] Ci esprimiamo così a titolo esemplificativo in quanto la religione è solo la parte più esteriore della Dottrina Sacra.

[5] Ovvero la Sruti o Scienza Sacra, essenza della Tradizione Primordiale nell’Hinduismo, avente il senso profondo di “Audizione”. Fatto questo che ci riporta a quanto detto prima.

[6] Ovvero la Smrti che è la “conoscenza riflessa” e ha anche il significato di “Memoria”.

[7] Vi sono alcune rare eccezioni (che si verificano a causa di adattamenti ciclici) come le fonti testuali cristiane.

[8] Per i Musulmani il Santo Corano è inimitabile in quanto opera di Allah (SWT) quindi per loro è IL capolavoro.

[9] Si può altresì dire che sia l’unico vero caso di Poesia nell’Islam proprio per la sua inimitabilità. Il Santo Corano stesso ci parla della poesia profana degli arabi della Jahiliyya ammonendoci di non confondere le due cose.

[10] In questo caso possiamo paragonare questo “fare poesia” a quello che contraddistingue la Smriti Hindu.

[11] Lingue quali il Persiano e l’Urdu pur non essendo l’Arabo, la lingua sacra, hanno avuto largo uso nell’Arte Poetica quale noi la intendiamo.

[12] Si deve intendere Din come equivalente islamico di “Tradizione Primordiale” nella quale è compreso l’aspetto prettamente exoterico concernente, coem si dirà in seguito, il solo ambito religioso. D’altronde il più comprende sempre il meno!

[13] Quì si intende l’incantesimo come pratica esoterica che conduce alla Conoscenza metafisica. Le condizioni del Kali Yuga hanno imposto un sovvertimento di tale significato che ha condotto a credere che l’incantesimo sia qualcosa di relativo al solo stato sottile dell’essere umano. Ancorchè l’incantesimo possa avere, come ha, valore nello stato sottile è per un fine piu grande che noi lo intendiamo.

[14] En passant e per completezza specifichiamo che il Wird può essere pensato analogo al Mantra Hindu mentre con Dhikr si intende il Ricordo di Allah (SWT) (Rimandiamo comunque a lavori piu dettagliati essendo moltissime le cose da dire a riguardo!).

[15] Parole, ritmo e suono.

[16] Per estensione alla natura corporea dell’uomo.

[17] Questo è il nome dello stato sottile nell’Islam.

[18] Il ‘Poema del Mantello’ (in arabo Qasîdatu l-burda, o semplicementeBurda) è una della qasâ’id maggiormente (e universalmente) cantate durante questi riti. L’autore è l’egiziano di origine marocchina (e berbera) Muhammad Sharafu d-Dîn Al-Busîrî (RA) (allievo del Maestro sufi Abû l-‘Abbâs Al-Mursî (QS), seguace a sua volta di Abû l-Hasan Ash-Shâdhilî (QS), dal quale deriva la tarîqa detta appunto Šâdhiliyya), nato nel 1212 e morto tra il 1294 e il 1298.

[19] Plurale di Tariqa , intesa quì come Confraternità.

[20] La complessità risiede nel fatto che tali strumenti devono rispettare quella che per i Pitagorici era l’Armonia delle Sfere Celesti.

HU!

domingo, 21 de febrero de 2010

EL QUR´AN EN LA OBRA DE IBN ARABI (Michel Chodkiewicz)

El presente trabajo es una excelente y serena, pero fundada, crítica a quienes desean separar al Shaykh al-Akbar, Ibn ´Arabi, del bendito Qur´an.

El escrito es de una de las mayores autoridades en akbarismo: Michel Chodkiewicz.

Como es bueno repetir, no hay Islam auténtico sin Tasawwuf (sufismo), ni Tasawwuf sin Islam.

Sergio Fritz
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Ibn 'Arabî ha sido frecuentemente presentado – por ciertos autores musulmanes y por la mayor parte de los orientalistas – como un sufí "filósofo" cuyas verdaderas fuentes de inspiración son, según ellos, extrañas al Islam. Los apoyos escrituarios que invoca en sus escritos son, desde ese punto de vista, considerados ya sea como hipócritas concesiones a la ortodoxia islámica, ya sea, en el mejor de los casos, como muestra de una hermenéutica extravagante.

Un estudio atento revela, por el contrario, que la obra del Šayh al-Akbar, no sólo en los enunciados doctrinales que propone, sino también en los detalles de su estructura, está toda ella inmersa en el "Océano del Corán" y que sus interpretaciones más sorprendentes – e incluso aparentemente más escandalosas – están siempre basadas en la letra misma del texto coránico.

El hecho de estudiar la obra de Ibn 'Arabî, como lo vengo haciendo desde hace casi cuarenta años, impone también examinar de cerca no sólo los escritos de sus comentaristas y de sus discípulos, sino también los de sus adversarios. La mala fe de la mayor parte de estos últimos, la bajeza de algunos de sus ataques, la monotonía de sus críticas convierten esa lectura forzosa en un pensum bastante desagradable. El análisis de tales polémicas es, sin embargo, muy instructivo – tanto más cuanto que permite comprender en gran medida los malentendidos que ha suscitado la doctrina akbarí en muchos orientalistas: éstos, curiosamente – y aunque su perspectiva sea a priori harto diferente de la de los doctores de la ley apasionados por la ortodoxia – , con frecuencia han retomado, haciéndola suya, la argumentación de los ulemas.

El examen de las obras hostiles al Šayh al-Akbar – desde el siglo XIII hasta nuestros días(1) hace aparecer regularmente, al lado de acusaciones que son lugares comunes de la literatura heresiológica (zandaqa, "ateísmo"; ibâha, "libertinismo", esta última palabra tomada a la vez en su sentido filosófico y en su acepción vulgar), la denuncia de un crimen sacrilego: el tahrîf ma'ânî l-Qur'án, el "desvío de los sentidos del Corán ". Esta denuncia se encuentra ya en Ibn Taymiyya (que es prácticamente el padre fundador de la polémica anti-akbarí y quien proporciona el esquema de las diatribas ulteriores) (2). Ha sido igualmente formulada, entre otros, por Husayn b. al-Ahdâl (ob. 1451) en su Kašf al-gitâ'(3) y por Burhân al-Dîn al-Buqa'î (ob. 1475) en su Tanbîh al-gabî (4). Ha sido repetida con entusiasmo por Sahâwî (ob. 1497), quien establece, en una voluminosa compilación inédita, al-Qawl al-munbî, un catálogo de las condenas anteriores (5). Y, para censurarlo o para alabarlo, los trabajos universitarios contemporáneos consagrados a Ibn 'Arabî generalmente se hacen eco, en este punto, de los trabajos de autores musulmanes, como podemos constatarlo sobre todo en el caso de Nicholson(6) o de Afîfî(7). Ardiente defensor del Šayh al-Akbar, Henry Corbin, por su parte, frecuentemente ha presentado con admiración al gran maestro andalusí como el hombre del bâtin, del sentido oculto – el que rompe las rigideces de la Letra para alcanzar, mediante un libre ta'wîl, sentidos nuevos de la Revelación. No tengo necesidad de decirles qué uso hacen de esta peligrosa apología los integristas de ahora.

Mi objetivo no es evidentemente demostrar la ortodoxia de Ibn Arabí, ni siquiera detenerme en las discusiones que este problema continúa provocando. Quisiera sencillamente, más allá de esos debates estériles, intentar dejar entrever más claramente, y a partir de ejemplos precisos, qué papel desempeña el Corán en las concepciones doctrinales del autor de las Futûhât Makkiyya y en la estructura misma de su obra. Deduzca cada uno las conclusiones que le parezcan adecuadas a partir de mis observaciones...

"Todo aquello de que hablamos en nuestras sesiones y en nuestros escritos procede del Corán y de sus tesoros", afirma el Šayh al-Akbar (8). Tal declaración ¿debe ser considerada como una simple precaución oratoria, como una concesión, dictada por la prudencia, a las normas comunitarias, que en realidad ocultaba otras fuentes de inspiración muy distintas? En una obra inédita donde asume la defensa de Ibn 'Arabî, el Radd al-matîn(9), 'Abdalganî an-Nâbulusî subraya, a propósito de las quemas de las obras de Ibn 'Arabî prescritas por determinados juristas que perseguían la herejía con incansable celo, que los que quieren ejecutar dicha sentencia se encuentran en una situación paradójica: si dejan subsistir en los libros de Ibn 'Arabî, en el momento de arrojarlos a la hoguera, las innumerables citas coránicas que contienen, es la palabra de Dios la que condenan a ser quemada; si las borran previamente, ya no son las obras del Šayh al-Akbar las que perecen en las llamas, pues el Corán está presente en todas sus páginas.

De hecho, todo lector de Ibn 'Arabî; puede constatar sin esfuerzo, página tras página, la abundancia de las referencias escriturarias. Hay que señalar, además, que la bibliografía akbarí tiene una inmensa laguna debida al hecho de la desaparición del gran tafsîr, el Kitâb al-gam' wa-t-tafsîl fi asrâr ma'ânî at-tanzîl, el cual, aunque incompleto (se detenía a la mitad de la sura al-Kahf), no comportaba menos de sesenta y cuatro volúmenes (10). Pero, sin hablar de la publicación de un texto que se hallaba hasta ahora inédito, el Igâz al-bayân (11), que es un pequeño tafsîr, debemos a un Šayh de Damasco, Mahmûd Gurâb, la edición reciente de una compilación que consta de cuatro gruesos volúmenes donde ha reagrupado, clasificándolos por suras y por versículos, textos exegéticos de Ibn "Arabî(12). Esta impresionante antología, nada más que por su peso, nos hace pensar que la observación de Nabulusl no está carente de pertinencia.

Estas consideraciones cuantitativas, aunque merecían ser formuladas, son, no obstante, relativamente secundarias y no constituyen nada más que un preámbulo. Lo que deseo mostrar ahora es la extrema importancia que reviste para Ibn 'Arabî;, contrariamente a lo que pretenden sus adversarios – y a veces sus defensores – , la letra del discurso divino.

A los ojos de éste, un poco de ciencia de lo bâtin aleja de lo zâhir, mucha ciencia del bâtin nos lleva a él. De esta soberanía absoluta de la Letra, numerosos pasajes de su obra dan testimonio. Es así como, en las Futûhât Makkiyya, habiendo aludido al versículo wa-huwa ma'a-kum aynamâ kuntum (Corán 57:4) empleando por descuido haytumâ – que tiene el mismo sentido – en lugar de aynamâ, el Šayh al-Akbar pide perdón a Dios por haberse alejado de la literalidad del texto sagrado, pues, dice, "Dios no desecha en vano una palabra para preferir otra". No debemos, pues, bajo ningún pretexto, transmitir la palabra de Dios según el sentido solamente, sino literalmente: actuar de otra manera es una forma de ese tahrîf de esa alteración de la Revelación reprochada a las Gentes del Libro (Corán 2:75; 5:13)(13). Esta preocupación por la literalidad absoluta se aplica además también al hadît, e Ibn "Arabi alaba a quienes, refiriendo las palabras del Profeta, tienen buen cuidado de no poner un wa en lugar de un fa, aunque estas dos partículas sean con frecuencia intercambiables en árabe(14).

Esta atención escrupulosa a la forma de la palabra de Dios – pues dicha forma, al ser divina, no es solamente la expresión más adecuada de la Verdad: es la Verdad; no es vehículo del sentido, es el sentido – , esta atención, digo, va a determinar la lectura que Ibn 'Arabî hace del Corán. Podemos considerar, sin error, que la obra del Šayh al-Akbar, tal como nos es dado conocerla en la actualidad, es toda ella un comentario coránico y que ilustra un método de interpretación que no busca lo que hay más allá de la letra nada más que en la letra misma. Del mismo modo que Dios es a la vez y al mismo tiempo az-zâhir wa-l-bâtin, el Aparente y el Oculto, del mismo modo que la Realidad universal es semejante a esa construcción geométrica llamada banda de Moebius, que parece tener dos caras – externa e interna – y que, de hecho, no tiene nada más que una, del mismo modo, digo, es absurdo distinguir en la Palabra de Dios – y a fortiori oponer – Letra y Espíritu, significante y significado. Estamos en las antípodas del método de un Filón de Alejandría. Para Ibn 'Arabî; es la palabra desnuda la que lo dice todo.

De ahí deriva, en particular, la importancia que Ibn Arabí concede, por ejemplo, a la manera como Dios se designa a Él mismo en el Corán: ora con un Nombre divino, ora con otro; unas veces con el plural Nosotros, otras veces con el Yo singular y otras con el Él, que es el pronombre de la "persona ausente". En una obra que ha estado largo tiempo inédita y que ha sido raramente estudiada, el Kitáb al-abadila (15), escribe particularmente: "Toda realidad del mundo es un signo que nos orienta hacia una realidad divina, la cual es el punto de apoyo de su existencia y el lugar de su regreso cuando llega a su término. Cuando Dios menciona el mundo en el Corán, debes prestar atención al Nombre divino al que Él lo vincula. Sabrás así de qué mundo se trata. Cuando Dios se designa con el singular (=Yo) y te designa con el plural (=vosotros), es que el versículo considerado se refiere a Él mismo desde la perspectiva de Su Unicidad y a ti desde la perspectiva de tu multiplicidad (...). Cuando Se designa a Sí mismo mediante el plural, diciendo, por ejemplo, Innâ (Ciertamente, Nosotros) o Nahnu (Nosotros), es que se trata entonces de Dios contemplado desde la perspectiva de [la pluralidad de] Sus Nombres. Cuando habla de ti en singular, es que Se dirige a ti desde el punto de vista de uno de tus elementos constitutivos y no a tu totalidad. Averigua, pues, aquello de ti que es destinatario del discurso".

Si subrayamos esta preocupación extrema por el literalismo, de las interpretaciones akbaríes, no es evidentemente para demostrar a sus adversarios la ortodoxia formal de Ibn 'Arabî;. La empresa sería vana: no basta con practicar una exégesis escrupulosamente atenta al zâhir del texto coránico para satisfacer a los ulamâ' az-zâhir. Nada ilustra mejor tal evidencia que la manera como Ibn 'Arabî; comenta el célebre versículo (Corán 42:11) Laysa ka-mitli-hi šay'un, que podemos entender como: "No hay nada que sea igual a Él". Nos harían falta muchas páginas para analizar en detalle los numerosísimos textos en que Ibn 'Arabî evoca este pasaje coránico. En pocas palabras, el problema que plantea este versículo gira en torno a la partícula ka, "como". ¿Es redundante, destinada sólo a reforzar la palabra mitl, "igual") Tal es, entre muchas otras, la opinión de Qušayrî(16) (ob. 1072) a quien se debe el primer tafsîr sufí completo que nos ha llegado, y para quien ese ka no es más que una partícula de enlace desprovista de sentido propio; es también la opinión de un gran contemporáneo de Ibn 'Arabî, Fahr ad – Dín Rázl (ob. 1209)(17): para él el ka es allí li-l-mubâlaga, y no tiene, por lo tanto, más que un valor de intensivo sin significado autónomo. Sin condenar tal parecer, Ibn 'Arabî tiene otra opinión. Dios no habla para no decir nada: la partícula ka debe, por consiguiente, conservar toda la fuerza de su sentido normal. Y el versículo significa entonces: "No hay nada como Su igual"(18) – interpretación que, para los alfaquíes, es sumamente blasfema – .

¿Quién es ese mitl, ese "igual" de Dios? Es el hombre, pero, por supuesto, el "hombre perfecto", al-insân al-kâmil, en tanto en cuanto es halîfat Allâh, "lugarteniente" de Dios sobre la Tierra (Corán 2:30; 7:79; 35:39). Ibn 'Arabî, en este comentario, se refiere expresamente al teomorfismo del ser humano citando el hadît: Inna-Llâha halaqa Adâma 'alà sûrati-hi(19) ("Ciertamente, Allah creó a Adán según Su forma") y utilizando el simbolismo del espejo (20), que también había sido validado por otro hadlt: el hombre es un espejo donde aparece el reflejo invertido áelhaqq, de la Realidad divina. Lo que es bâtin, "oculto", en Dios, es zâhir, "aparente", en el hombre. Este pasaje de las Futûhât concluye con una triple exclamación cuya fuerza se pierde en la traducción: Fa-anta maqlûbu-hu! Fa-anta qalbu-hu! Wa-huwa qalbu-ka! ("¡Tú eres Su reflejo invertido! ¡Tú eres Su corazón y Él es tu corazón!").

Sería deseable poder multiplicar los ejemplos del método akbarí de lectura del Corán y de sus resultados paradójicos. Por falta de tiempo, nos limitaremos a algunos casos típicos y que están en relación con aspectos esenciales de la doctrina de Ibn Arabí.

En el Corán, la orden divina a Adán y Eva no es exactamente la de no comer del fruto prohibido, sino la de no "acercarse al árbol" (Corán 2:35). Ahora bien, el árbol – šagara – es para Ibn 'Arabî – y este sentido está dictado por el empleo del verbo šagara, de la misma raíz, en otro versículo (Corán 4:65) – el tašaggur, el hecho de dividirse(21). Es de esta división, de esta ruptura de la unidad, de la que Adán y Eva deben mantenerse apartados. La significación metafísica de su desobediencia está, pues, inscrita en el nombre mismo del objeto de la prohibición y no debe buscarse en otra parte.

Esta interpretación es además perfectamente coherente con la continuación del relato coránico tal como nos la proporciona la sura Ta – Ha (20:121) – bajo una forma exactamente paralela a la del Génesis: fa-akalâ min-hâ fa-badat la-humâ saw'atu – humâ, "comieron de él y entonces apareció su desnudez". "Desnudez" es la traducción habitual, pero el término saw'atu-humâ designa de hecho las partes pudendas, los órganos sexuales respectivos de Adán y Eva; dicho de otro modo: la diferenciación sexual, es decir, la manifestación más elemental, más evidente de la división, de la ruptura de la unidad; unidad que simboliza, en Ibn Arabi, la forma esférica, que era, originalmente, la del ser humano (22).

En la sura al-Kahf, la sura de la caverna, el versículo final (Cor. 18:110) podría ser traducido así: "El que espera el encuentro con su Señor, que actúe piadosamente y que, en la adoración de su Señor, no Le asocie a nadie". Hemos traducido la última palabra del versículo, abad, por "nadie", como es costumbre hacerlo cuando va precedida de una negación (en este caso, lâ: wa-lâ yušrík bi-'ibâdati rabbi-hi ahadan). Pero Ahad es igualmente un Nombre divino y designa a Dios en tanto que es Uno (Qul: huwa-Llâhu ahad, "Di: Él, Allâh, es Uno", afirma la sura 112). Podemos, pues, comprender también literalmente esta frase y es lo que hace Ibn Arabî en varios pasajes de sus obras, particularmente en su Kitâb al-ahadiyya(23), el "Libro de la Unidad" – con el significado de: "El que espera el encuentro con su Señor, que no asocie a Ahad (=que no asocie al Uno) a la adoración de su Señor". En efecto, para Ibn Arabî, la noción de "Señor", rabb, es correlativa e inseparable de la de marbûb, "vasallo". Implica, por consiguiente, una dualidad que excluye totalmente el nombre de Ahad. Según los términos de Ibn 'Arabî, "la Unidad (al-ahdiyya) te ignora y te rechaza". El Uno, en cuanto tal, al ser, por lo tanto, inaccesible, el hombre en el acto de adoración (ibada) no debe dirigirse – y no puede dirigirse, piense lo que piense – más que al Nombre divino que es "su" Señor, es decir, al "Rostro" (Wagh) particular del Divino que está vuelto hacia él y del que saca todo cuanto tiene de ser.

Este tema determina la doctrina akbarí del conocimiento de Dios, tal como se expresa, entre muchos otros textos, en un pasaje del capítulo dos de los Fusûs al-hikam (24), donde volvemos a encontrar la imagen del espejo: "Aquél a quien El se epifaniza no ve nada más que su propia forma en el espejo de la realidad divina (al-haqq); no ve la Realidad divina y no puede verla, aunque sepa que es en Ella donde ha percibido su propia forma (...). El (Dios) es, pues, tu espejo donde te contemplas; y tú eres Su espejo donde El contempla Sus Nombres y la manifestación de los poderes propios de cada uno de ellos. ¡Y todo eso no es otra cosa que El!"

Es también, retenido el sentido obvio de la palabra clave – rehusando creer, contrariamente al postulado implícito de muchos exégetas, que Dios se expresa por medio de "aproximadamente" – , como Ibn 'Arabî justifica escriturariamente un aspecto esencial de su doctrina. En la sura al-Isrâ' ("El viaje nocturno", Corán 17:23) figura un versículo que dice: wa-qada rabbu-ka allâ ta'budû illâ iyya-hu, "Y tu Señor ha decretado que no adoraréis nada más que a El". He aquí lo que Ibn 'Arabî escribe al respecto: "Qadà – decretar – significa "estatuir", "decidir", y eso es lo que explica que los falsos dioses sean adorados. El objetivo de la adoración en todo adorador no es, en efecto más que Dios. Ninguna cosa, si no es Dios, es adorada por sí misma. La culpa del politeísta (mušrik) consiste solamente en el hecho de entregarse a una forma particular de adoración que no le ha sido prescrita por Dios" (25). Y cita a este respecto el versículo donde los politeístas, literalmente los "asociadores" (al-mušrikûn), declaran: "No los hemos adorado (a los falsos dioses, a los ídolos) más que para que nos acerquen a Dios" (Cor. 39:4). Así, para el Šayh al-Akbar, al ser el qadâ' divino, por definición, imprescriptible, toda criatura, lo quiera o no, lo sepa o no, no adora más que a Dios (o más precisamente a un Nombre divino, pero todos los Nombres remiten al mismo Nombrado), cualesquiera que sean la forma y el objeto inmediato de su adoración.

Esta misma noción, sobre una base escrituraria diferente, está igualmente desarrollada con fuerza el capítulo X de los Fusûs (26), cuyo punto de partida es un versículo de la sura Hûd (Corán 11:56). La expresión clave es aquí la de sirdt mustaqlm, "camino recto". "Los hombres, escribe Ibn Arabî, se dividen en dos categorías: los que andan por un camino que conocen y del que saben adonde conduce, y, para ellos, ese camino es la vía recta. Y los que andan por un camino que ignoran y del que no saben adonde conduce. Y este camino es rigurosamente idéntico al que recorren con conocimiento de causa los de la primera categoría". Comentando este mismo versículo de la sura Hûd en las Futûhât, exclama: mâ fi l-'alam illâ, mustaqîm!, "¡No hay nada en este mundo que no sea recto!" (27). No hay apenas necesidad de precisar que todo esto provoca la indignación de Ibn Taymiyya para quien el qadâ' – conforme a la mayor parte de las exégesis anteriores, la de Fahr ad-dîn Rázl por citar sólo una (28) – es un "mandamiento", una "prescripción", y no un decreto(29): interpretación que, según los criterios akbaríes, atestigua una confusión grave entre el amr taqwînî, la orden existenciadora, que no puede dejar de ser ejecutada, y el amr taklîfî, la orden normativa, que, ésta sí, puede ser desobedecida.

En conexión estrecha con lo que precede, mencionaremos un último ejemplo, también ligado a una de las perspectivas mayores de la doctrina akbarí. Se trata esta vez de un comentario del versículo ya citado (Corán 7:156): Wa-rahmatî was'at kulla šay'in, "Y mi misericordia lo abarca todo ". Comentario indirecto en esta ocasión, puesto que el comentarista, aquí, no es otro que Iblis, el diablo. Ibn 'Arabî, efectivamente, relata en sus Futûhât un diálogo entre Iblis y un sufí célebre del siglo IX Sahl b. 'Abdallâh at-Tustarî (ob. 283/898) (30). "Lo último que Iblis declaró a Sahl, escribe, fue esto: Dios ha dicho "Mi Misericordia abarca toda cosa", lo cual es una afirmación de alcance general. Ahora bien, no se te oculta que yo soy una de esas cosas, sin la menor duda. La palabra "toda " implica la universalidad [de ese enunciado] y la palabra "cosa" representa lo más indeterminado que hay. Su Misericordia me abarca pues. A Sahl que contesta "Yo no pensaba que tu ignorancia iría tan lejos", Iblis contesta: "¡No creía que llegases a ese extremo! ¿No sabes, oh, Sahl, que la limitación (at – taqyld) es tu atributo y no el Suyo?". Ibn Arabî concluyó este relato con la siguiente observación: "Supe entonces que Iblis poseía una ciencia incontestable (literalmente: una ciencia sin ignorancia) y que, en este problema, es él quien había sido el maestro de Sahl".

De esta hermenéutica tan desconcertante, estoy de acuerdo, tan escandalosa a los ojos de los ulamâ' az-zâhir, Ibn 'Arabî justifica su principio y precisa su regla en un texto de las Futûhât con el cual concluiré esta primera parte de mi exposición: "En lo que concierne a la Palabra de Dios", escribe, "cuando está revelada en la lengua de un pueblo determinado y que los que hablan esa lengua difieren entre ellos en cuanto a qué quiso Dios decir con tal palabra o tal grupo de palabras, cada uno de ellos, por diferentes que sean sus interpretaciones, comprende efectivamente lo que Dios ha querido decir, a condición de que su interpretación no salga de las acepciones admitidas en la lengua en cuestión: porque Dios conoce todas esas acepciones y no hay ninguna que no sea la expresión de lo que ha querido decir a esta persona en concreto" (31),

La difusión de la obra del Šayh al-Akbar a través del mundo musulmán, la influencia directa o indirecta que ha ejercido, desde al-Andalus hasta China (32), sobre las doctrinas y el vocabulario técnico del sufismo(33) ha engendrado una considerable literatura en árabe, en persa y en muchas otras lenguas. Pero, un hecho curioso merece ser señalado: si bien los discípulos, comentaristas o epígonos de Ibn 'Arabî han escrutado manifiestamente sus escritos con minuciosa atención, parece como si los árboles les ocultasen el bosque. El caso de las Futûhât Makkiyya es particularmente digno de interés. Se trata, como se sabe, de una "Summa" que representa el estado definitivo de la doctrina akbarí (les recuerdo que la segunda redacción de las Futûhât fue acabada sólo dos años antes de la muerte de su autor). Generación tras generación, los sufíes han extraído de allí ideas, símbolos, formulaciones. Las han utilizado ampliamente para interpretar otras obras menos explícitas, sobre todo los Fusûs al-Hikam. Pero dicha utilización sigue estando determinada por la preocupación de encontrar respuesta a una pregunta particular: que yo sepa, ninguno de ellos parece haberse preocupado nunca por considerar las Futûhât como un todo, por dilucidar los secretos de su arquitectura. El silencio sobre este punto de lectores tan sutiles como Qûnâwi, Gîlî, Šrânî, Nâbulusî – por no citar nada más que a algunos de ellos – es harto sorprendente.

Una cuestión fundamental debe entonces plantearse: si estos personajes, cuya perspicacia y veneración por Ibn 'Arabî no pueden ser puestas en duda, no nos proponen ninguna explicación, ¿no es sencillamente porque no hay nada que explicar? Si la estructura de las Futûhât no requiere por su parte ninguna observación, ¿no es porque dicha estructura es totalmente arbitraria y resiste, por lo tanto, a toda tentativa de justificación? Un examen del índice de materias sugiere, a primera vista, una respuesta afirmativa: es muy difícil distinguir allí una progresión ordenada, una articulación inteligible de los temas que allí se suceden. El mismo tema es con frecuencia tratado en varias ocasiones en capítulos diferentes, a veces muy alejados, y cada uno de los cuales parece ignorar a los otros. Largos fragmentos aparecen constituidos con la recuperación, total o parcial, de tratados anteriores, siendo por lo tanto materiales más o menos heterogéneos. Además, lo que nos dice el propio Ibn 'Arabî parece autorizar este punto de vista: "Ni este libro ni mis otras obras han sido compuestos a la manera de los libros ordinarios y yo no los escribo según el método habitual de los autores", declara (34). "No he escrito una sola letra de este libro de otro modo que bajo el efecto de un dictado divino", precisa también (35). Esta afirmación, formulada en numerosas ocasiones, del carácter inspirado de sus escritos hace pensar que sería vano querer discernir allí un pattern preciso. El Šayh al-Akbar proporciona un argumento suplementario a esta hipótesis en una reflexión que formula a propósito de la presentación, en efecto muy desconcertante para el lector, de datos relativos a los "estatutos legales" (ahkâm): el capítulo 88, que expone los principios (usûl) de los que derivan dichos estatutos, habría debido lógicamente, reconoce, preceder y no seguir a los capítulos 68 a 72 que exponen sus consecuencias, pero, dice, "no soy yo quien ha elegido observar este orden" (36). Y, para ilustrar dicha indicación, compara los non sequitur tan numerosos en las Futûhât con los que se observa en las suras del Corán, donde se suceden versículos cuya proximidad parece puramente accidental. Las frases que acabo de citar (y hay muchas otras semejantes en las Futûhât) animan por consiguiente a sacar la conclusión de que una obra cuya redacción obedece así a imprevisibles inspiraciones – sean sobrenaturales o no – está necesariamente desprovista de coherencia interna y que los enigmas que encierra son indescifrables.

Creo poder afirmar que esta conclusión es radicalmente falsa y que las Futûhât no son un conjunto heteróclito de secuencias cuya yuxtaposición estaría explicada por los caprichos de la inspiración. A través de los pocos ejemplos a los que debe limitarse hoy mi examen, vamos a constatar un nuevo aspecto, muy singular, de la relación entre el Corán y la obra de Ibn 'Arabî.

En su preciosa edición crítica de las Futûhât, actualmente en fase de publicación, Osman Yahya llama la atención sobre el carácter simbólico del número de capítulos contenidos en las seis secciones (fusl) de las Futûhât (37). Constata, por ejemplo, que el número de capítulos del fasl al-manâzil (la sección de las "moradas espirituales") es idéntico al de las 114 suras del Corán. El número 114, ¿fue elegido por Ibn 'Arabî, de algún modo, por simples razones estéticas? Nada de eso, como vamos a comprobar. Ibn 'Arabî, en este caso como en el de otros muchos enigmas, da en realidad a su lector todas las claves de las que tiene necesidad: pero tales claves están deliberadamente desperdigadas y, la mayor parte de las veces, colocadas de tal manera que pasan desapercibidas (38).

Consideremos más de cerca ese fasl al-manâzil, el cuarto de la obra y uno de los más misteriosos. Se extiende desde el capítulo 270 hasta el capítulo 383. Está, con toda evidencia, en relación, al menos por su título, con uno de los primeros capítulos de las Futûhât, el capítulo 22 que se titula: fî ma'rifat 'ilm manzil al-manâzil. Pero este capítulo 22 que Osman Yahya llama un bâb garîb, un "capítulo extraño", plantea a priori más problemas de los que resuelve. Descubrimos allí una lista que agrupa, bajo diecinueve "moradas espirituales" principales (ummahât al-manâzil), una serie de manâzil secundarios que a su vez comprenden una serie de otros. Las denominaciones de todos esos manâzil (denominaciones que veremos reaparecer aquí y allí en el fasl al-manâzil) dejan perplejo: manzil al-istihbâr, manzil al-halâk, manzil ad-du'â', manzil ar-rumûz, etc. Ninguna de dichas designaciones corresponde a la taxinomía en uso en la literatura sufí para distinguir las etapas de la vida espiritual.

Cruzando indicaciones crípticas dispersas en el capítulo 22 y en los capítulos del cuarto fasl, esos nombres, no obstante, adquieren de pronto todo su sentido: cada uno de ellos se relaciona con una sura o un grupo de suras. El manzil al-istihbâr ("Morada de la interrogación ") es el que reúne las suras que comienzan por una fórmula interrogativa, por ejemplo, la sura 88 (Hal atâ-ka hadît al-gâšiya...). El manzil al-hamd ("Morada de la alabanza"), que se subdivide en cinco manâzil, está constituido por las cinco suras (1, 2, 18, 34, 35) que comienzan por al-Hamdu li-Llâh. El manzil ar-rumûz ("Morada de los símbolos") comprende todas las suras que comienzan por los hurûf muqatta'a, las misteriosas letras aisladas llamadas también nûrâniyya, luminosas. El manzil ad-duâ' ("Morada de la llamada") es la denominación común de las suras que comienzan por la fórmula vocativa Yâ ayyuhâ...; el manzil al-amr ("Morada de la orden") reúne las suras que comienzan por un verbo en imperativo como qul ("¡Di!").

No proseguiré esta enumeración, reservándome el establecer ulteriormente un cuadro exhaustivo que identifique las referencias coránicas de todos los términos técnicos del capítulo 22. Pero estas primeras constataciones permiten prever que cada uno de los 114 capítulos del fasl al-manâzil debe efectivamente corresponder a una sura cuyas significaciones esotéricas exprese, de manera más o menos alusiva. Buscaríamos en vano, de todos modos, una relación, que parece ser evidente, entre el primero de esos capítulos y la primera de las suras del Mushaf, entre el segundo capítulo y la segunda sura, y así sucesivamente. La correspondencia presentida resulta difícil de verificar.

La llave del misterio está puesta en nuestras manos en diversas ocasiones, especialmente desde el comienzo del fasl, en el segundo versículo del poema preliminar, donde figura la palabra 'urûg, "subida, ascensión ": el recorrido de las moradas espirituales es un recorrido ascendente que, en sentido inverso al orden habitual de la Vulgata coránica, conduce al murîd desde la última sura del Corán, la sura an-Nâs, hasta la primera, al-Fâtiha, "la que abre", aquélla en que le es dado el fath último, la iluminación definitiva. Se trata, en otros términos, de un ascenso desde el punto extremo de la Manifestación universal (que la última palabra del Corán: an-Nâs, "los hombres", simboliza) hasta su Principio divino (simbolizado por la sura inicial, Umm al-Kitâb, "la Madre del Libro", y, más precisamente, por el punto del bâ' de la basmala). La inexplicable sucesión de los capítulos se vuelve entonces perfectamente coherente y la relación que indico es demostrable sin ninguna excepción en el texto de cada uno de ellos y, con frecuencia, en su título mismo, como puede observarlo, en estos pocos ejemplos que vienen a continuación, cualquiera que esté algo familiarizado con el Corán: el tercer manzil (capítulo 272), manzil tanzîl at-tawhîd, corresponde de manera evidente a la tercera sura a partir del final, la sura al-Ihlâs, cuyo tema es la unicidad divina; el cuarto (capítulo 273), manzil al-halâk, "Morada de la perdición", corresponde a la sura al-masad, que describe el castigo de Abû Lahab; el sexto manzil (capítulo 275), "Morada de la desaprobación de los ídolos", corresponde a la sexta sura su'ûdan, es decir: siempre remontando desde el final hasta el principio, y, por lo tanto, a la sura al-kâfirûn; el décimo-noveno manzil (capítulo 288), "Morada de la recitación ", corresponde según la misma regla a la sura al-'alaq, aquella en que se le ordena al Profeta que recite la Revelación que el ángel le transmite; la cuadragésimo – séptima (capítulo 316), "Morada del Cálamo divino", corresponde a la sura al-Qalam, y así sucesivamente hasta el manzil número 114 y último, el manzil al-'azama al-gâmia ("Morada de la Inmensidad totalizante"), que es aquel en que el ser, llegado al término de este viaje iniciático, entiende los secretos de la "Madre del Libro". Me eximo, esta vez también, de una enumeración completa que sería por otra parte superflua, pues cada uno puede fácilmente, una vez que posee esa clave, completar el cuadro sumario que acabo de establecer.

Estas indicaciones sucintas son suficientes en todo caso para confirmar que no hay nada fortuito en la organización de este jad y que la sucesión de los temas tratados, por singular que parezca, obedece a una ley precisa. Otros enigmas van a quedar resueltos por ese mismo procedimiento. Ilustraré este punto refiriéndome al capítulo 273 (39), donde algunos pasajes pueden dar al lector la sensación de estar ante una imaginación desordenada o, en la hipótesis más favorable, ante una experiencia visionaria incomunicable. Ibn 'Arabî, conducido por el intelecto primero, visita este manzil donde, dice, se encuentran cinco habitaciones (buyût). Cada una de dichas habitaciones encierra unos cofres (hazâ'in). Cada cofre tiene varias cerraduras (aqfâl), cada cerradura tiene varias llaves (mafâtîh), a cada llave hay que darle un cierto número de vueltas (harakât). Luego, el Šayh al-Akbar describe, una por una, esas habitaciones con su contenido: el primer cofre de la primera habitación tiene tres cerraduras, la primera de dichas cerraduras tiene tres llaves, la primera de esas llaves debe dar cuatrocientas vueltas, etc. Estas extrañas precisiones desarman la mayor parte de las veces, creo yo, la curiosidad del lector. Son, sin embargo, fáciles de interpretar si se sabe que este manzil es el de la sura ai – Masad: las cinco habitaciones son los cinco versículos de esta sura. Los cofres son las palabras de cada versículo, el número de cerraduras es el de las letras que constituyen cada una de estas palabras, las llaves son los signos gráficos que constituyen estas letras (puntos diacríticos y ductus consonantico), las vueltas de llave expresan el valor numérico de estas mismas letras según el abgad. El primer cofre es, pues, la palabra tabbat; está compuesta de tres letras árabes, que son otras tantas cerraduras. La primera de estas cerraduras es el Tá\ que reúne tres signos gráficos – por lo tanto, tres llaves – y cuyo valor numérico es de 400. Explicaciones análogas – donde la ciencia de las letras ('ilm al-hurûf) desempeña un papel importante, que el capítulo dos de las Futûhât anuncia expresamente – pueden ser dadas cada vez que encontramos, en cualquier parte de la obra, enunciados similares a este. Se piense lo que se piense de esto, que, para muchos, no es más que un juego intelectual bastante gratuito, es preciso, sin embargo, admitir que este juego está sometido a unas reglas.

No continuaré desarrollando aquí estas consideraciones, reservándome el aportar ulteriormente precisiones análogas sobre los otros fusûl y sobre la lógica de su sucesión, así como sobre el reparto de los capítulos entre esas seis secciones. Espero, sin embargo, haberles dejado entrever más claramente el papel esencial que desempeña el Libro santo en la sustancia y en la forma misma del corpus akbarí. Me limitaré, para concluir, a citar una vez más al autor de las Futûhât. "Sumérgete en el Océano del Corán", escribe, "si tu capacidad pulmonar es suficiente, y, si no, limítate al estudio de las obras que comentan su sentido visible y no te sumerjas en él: perecerías allí, pues es profundo''. Y añade un poco más adelante: "De los que se han quedado parados, que han llegado a la meta, pero han permanecido allí sin volver jamás, nadie saca provecho, y ellos no sacan provecho de nadie: pusieron la mira en el centro del Océano – o más bien es el Océano quien apuntó hacia ellos – y se sumergieron en él para la eternidad". Ibn 'Arabî no es de esos: nadador de poderosos pulmones, se arrojó al insondable abismo de la Palabra de Dios. Pero ha sabido volver a las orillas del mundo creado, trayéndole a manos llenas las perlas de la sophia perennis – wa-l-hamdu li-Llâh.
NOTAS
1 Sobre algunas de las polémicas más recientes, consúltese el artículo de Th. Emil Homerin, Ibn 'Arabî in the People's Asembly, Middle East Journal, vol. 40, nº 3, 1986, pp. 462 – 477.
5 al-qawl al-munbl, Ms. Berlín, spr. 790. f. 24b. Para Sahawl, la acusación de ibaha no abarca solamente la doctrina, sino también las costumbres, cf. por ejemplo f. 97b.
7 The Mystical Philosophy of Muhyid – Din Ibnul 'Arabî, 2(a) ed., Lahore, 1964, pp. 191 – 194. Para un estudio reciente en la exégesis coránica en Ibn 'Arabî por un universitario árabe, consúltese NasrHamid Abû Zayd, Falsafat al-ta'wll, Beyrut, 1983.
8 Futûhât, III, 334 (todas nuestras referencias a esta obra – en abreviatura Fut. – remiten a la edición egipcia de 1329 o a su reimpresión facsímil, Beirut, s.d., Dar Sádir).
10 Cf. la Igaza concedida por Ibn 'Arabî al rey Muzaffar editada por A. Badawi (Al – Andalus, vol. XX, fase. 1, 1955. n 7) y O. Yahia, Histoire et classification de l'ouvre d'Ibn 'Arabî, Damasco, 1964, I, 266. Tenemos razones para pensar que la desaparición de esta obra no es ni accidental ni definitiva.
11 El Igaz al-bayan fue publicado por el Šayh Mahmûd Gurab, a partir del unícum de Estambul, en el primer volumen de la obra señalada en la nota 12. Este comentario coránico, en la versión editada, finaliza en el versículo 252 de la sura al-baqara.
12 Ar-rahma min ar-Rahman fi tafsîr wa-išarat al-Qur'an, 4 volúmenes, Damas co, 1989. Sobre esta obra, ver nuestra reseña (en prensa) en el Bulletin critique des An – nales islamologiques, nº 8.
17 Razi, tafsîr, Teherán s.d., XXVII, 150 – 153. RazI critica igualmente (ibídem, 153) el hecho de relacionar este versículo con Corán 16:60 (wa -li-Lldhi l-matal al-a'la).
20 La idea del hombre (al-insan al-kâmil) como espejo de Dios y de Dios como espejo del hombre está desarrollada en el primero y en el segundo de los capítulos de los Fusûs (véase en particular Fus., I, 53 y 61 s.) Está igualmente evocada en las Futûhât (I, 163; IV, 430 etc.) Véase también la interpretación del hadlt: al-mu'min mir'at al-mu'min (Tirmidl, birr, 85), basada en el hecho de que al-mu'min es también uno de los Nombres divinos, enFut, 1, 112.
21 Ful, II, 218. Cf. Rázl. op. cit., III, 5 – 6, donde la relación sagara/tasaggur está mencionada sin sacar consecuencias. Véase también Qurtubi, al-Gdmi' li – abkam al-Qur'án, El Cairo, 1933, I, 260; Qusayrl, op. cit. I, 92. A esta significación negativa de sagara, basada en la etimología que recoge aquí Ibn 'Arabî, corresponde simétricamente una significación positiva, ligada al simbolismo visual, pues el árbol tiene un carácter axial evidente: el árbol es también el "hombre perfecto", según una definición que da Ibn 'Arabî en su Kitâb istilah as – sufiyya, Hayderabad, 1948, p. 12.
31 Fut, IV, 25. Corolariamente, "si el individuo en cuestión se aparta de las acep ciones admitidas en la lengua, en ese caso no ha recibido ni comprensión, ni ciencia ".
32 La mezquita de la calle del Buey, en Pekín, había conservado en su biblioteca, en plena Revolución cultural – he podido constatarlo con mis propios ojos – , los cuatro volúmenes de la edición egipcia de las Futûhât. Las obras de autores de la escuela akbarí también han llegado a China – muy probablemente por medio de los maestros naqsban – díes – . Es así como un investigador persa, M. DSnesh – Pazûh, ha podido describir el ma nuscrito, recientemente descubierto en Pekín, de un Comentario de los Lawá'ih de G – ami, redactado por un alumno de este último.
33 Sobre esta influencia, y sobre los medios por los cuales se ha ejercido – en el es pacio geográfico, pero también a través del espesor de las sociedades musulmanas y hasta en los medios populares – , cf. nuestra comunicación (en prensa), The Diffusion of Ibn Arabi's doctrine, en el Coloquio de Princenton dedicado a los Modes of Transmis – sion of Religious Culture in Islam (en abril de 1989).
38 Las indicaciones que se encuentran a continuación no son únicamente mérito mío, ni mucho menos. Debo repetir aquí mi deuda contraída con mi maestro Michel Valsan, quien guió durante largos años mi exploración del corpus akbarí. Mi gratitud se dirige también a mi sabio amigo Abdelbaki Meftah: nuestros intercambios epistolares me han ofrecido en numerosas ocasiones la posibilidad de precisar o rectificar mis interpretaciones. Por último, a algunos de los que, hoy, asumen la transmisión de la hirqa akbariyya les debo una ayuda sin la cual mis esfuerzos habrían sido en vano.
Publicación original en Los dos Horizontes (Textos sobre Ibn 'Arabi), Editoria regional de Murcia, 1992. Trabajos presentados asl primer congreso Internacional sobre Ibn al-'arabi (Murcia, 12-14 de noviembre de 1990), ed. Alfonso Carmona Gonzalez.

FUENTE: http://www.webislam.com/?idt=12320